Recensione di Pasquale Almirante pubblicata sulla Tecnica della scuola sul libro “Il treno della scienza un viaggio senza fine”

Un treno di insegnanti pendolari che ogni giorno devono percorrere chilometri per raggiungere la scuola. E già questa è una storia collettiva, come i romanzi epici. Poi c’è però la singola storia che coinvolge il singolo viaggiatore all’interno di questa massa di persone che deve guadagnarsi da vivere facendo il mestiere ritenuto da molti il più bello del mondo, quello di docente, ma costretti a spostarsi da casa all’alba per raggiungere gli studenti prima che suoni la campanella. 

Bruno Lorenzo Castrovinci, col suo romanzo “Il treno della scienza. Un viaggio senza fine”, Armenio Editore, fa proprio questa operazione, coglie di ogni singolo viaggiatore la storia che lo rappresenta durante il percorso, in una Sicilia scordata dalla grande velocità e dalla implementazione di strutture per rendere più agevole la vita ai suoi abitanti. 

Il romanzo si snoda nell’arco di due anni, contrassegnati dallo sferragliare del treno e pure delle simpatie che durante il percorso nascono, forse inevitabilmente, ma forse anche sollecitate dalla forzata intimità che spinge ad aprirsi e a raccontarsi, ma pure a esplorare, e farsi esplorare, il compagno di viaggio.

Quattro i personaggi principali: Marco, Ester Laura, Alberto contornati dal gruppo dei pendolari e in un secondo momento anche da Roberta. 

Presente nel romanzo anche la scuola, con le sue contraddizioni e le sue prospettive di vita attraverso le lezioni con gli alunni e i rapporti coi colleghi. Le scansioni temporali, con le gite e le vacanze. Ma anche un mondo spesso non compreso mentre appaiono evidenti i tanti sacrifici degli insegnanti, compreso quello del pendolarismo. 

Tuttavia è dentro il treno che si focalizza l’attenzione dello scrittore, perché durante quelle ore, buttate per spostarsi, sbocciano amori e simpatie, si accendono storie personali, sbucano delusioni dell’esistenza ma anche emozioni scordate, sensi di colpa, afflizioni ma pure aspettative sentimentali.  

Ester, bella e pure forse disposta al grande amore, mentre si rincorrono incontri casuali, sguardi furtivi tra colleghi, rossori e pure sogni: incontri sfuggenti e rarefatti. 

Tra gli eventi narrati anche la morte di un collega, che declama l’effimera esistenza dell’umanità, rappresentata pure dal volgere delle stagioni colte durante la corsa di questo treno di pendolari.

Pasquale Almirante (Pubblicato sulla Tecnica della Scuola”

Recensione di Marcello Fazio al libro “Un treno della scienza un viaggio senza fine”

Ogni testo, scritto e narrato, che si trasforma in romanzo, contiene e alimenta una colpa. Colpa di, colpa per. Lo si scrive sempre incolpando un lui o una lei, o un qualcosa che ha indotto a scrivere.

Chi legge, ovviamente, e mi riferisco a qualsiasi testo scritto, si identifica con chi lo scrive, con chi pensa di aver pubblicato un libro necessario, indispensabile, perché nei contenuti, nell’ambizione di scuotere coscienze, di ammonire la società, di ispirare dibattiti sociali e politici, di elevare un falò di trascurabili ragioni personali a indignazione collettiva, ne fa motivo di riflessione.

Nel “Treno della scienza” invece, che per alcuni versi possiamo definirlo un romanzo costruito fra lo scenario di innumerevoli passaggi di vita, lo scrittore, Bruno Lorenzo Castrovinci, descrive tratti salienti di una vita piatta e di consuetudini che sono assai lontane dalle emozioni, dai palpiti e dal pathos; che non mettono a fuoco passioni, sino a quando vi è l’esigenza di astenersi dall’immobilismo introdotto nella vita dei protagonisti, per una staticità assai insopportabile.

Il treno della scienza”, distoglie i pendolari dai ritmi quotidiani funesti; pendolari che si recano sul proprio posto di lavoro e che intrecciano, attraverso la regolarità dell’ incontro giornaliero, quella che potremmo chiamare la rivitalizzazione delle emozioni.

Questo il titolo del romanzo, che porta con sé e in sé, tutto l’ apparato di vite pronte a rinascere, tra lo sguardo ed il suo significato, tra la passione, fra gesta incomprensibili, ma tanto comprensibili in chi sa, in chi avverte, in chi vorrebbe, in chi ha sempre desiderato, voluto. E tutto si trasforma. Cambiano vite. Cambia la meta.

Muta qualcosa e tutto diventa attesa. Attesa di un treno di cui non sappiamo chi scenderà alla successiva fermata e quanto durerà la sosta in essa.

Quasi tutti i romanzi contemporanei rispondono al biblico appello dei protagonisti del peccato originale, alla necessità di intervenire nel corso delle cose attraverso una manomissione, una deviazione che fatalmente culmina sempre nel voler provare ancora, nel sentimento trattato con cura.

È il romanzo degli “incolpevoli”; strano a dirsi. Incolpevoli perché tutto avviene senza averne colpa…in un susseguirsi di istanti per niente premeditati. Sembra essere il romanzo del bisogno, dell’ esigenza.

Ed è proprio questo che lo fa diventare un romanzo costruito su passaggi reali. Per certi inossidabili aspetti è molto di più di un romanzo, è molto meglio di quelli che minacciano di esserlo.

Si tratta piuttosto di riconoscere, nel libro “Il treno della scienza” un’armonia del piacere, della passione non esibita, attesa e palesata da sguardi e da movenze che hanno una comunicazione non verbale carica ed espressiva, un talento indiscutibile ma non ingombrante, una pazienza pesata come l’oro, una grazia presente, un equilibrio non pedagogico: prerogative involontarie dei grandi libri.

Infine perché l’ha scritto uno scrittore autentico. Come pochi in questo nostro tempo. Uno di cui ci si incanta ad ascoltarlo. Uno che nel deserto del niente pianta le radici di una scrittura sapiente e per nulla banale. Uno che fa la differenza tra fenomeno della scrittura e artigiano della stessa.

Marcello Fazio

Recensione di Antonella Molica Franco sul romanzo “Salire sempre più in alto fino a toccare il cielo”.

Un po’ di tempo fa un uomo, non dissimile da uno dei protagonisti di questo romanzo, Angelo, mi disse “non c’è concentrazione senza prima ampia dispersione”. Nel leggere il testo mi sono tornate in mente queste parole. Attraverso un viaggio in salita, una salita che è insieme fisica e tangibile, ma anche metafisica e metaforica, le vite di Angelo, Chiara, Luca, Anna, Flora e Luigi si disperdono e confondono “nel tormento del viaggio”; per poi concentrarsi, che etimologicamente vuol dire convergere, in uno stesso punto.

La caoticità del reale trova mimesi in una trama ricca e costellata da contraddizioni che però sono solo apparenti. Questo equilibrio sottile fra coppie antinomiche regge in piedi la trama di questo testo: i personaggi navigano le contraddizioni di discesa e ascesa, disperazione e concentrazione, pienezza e mancanza, per trovare finalmente una risoluzione finale, dove gli opposti si compenetrano. 

Ascendere con grande difficoltà, per poi lasciarsi andare a un salto nel vuoto; concentrare la propria vita su una strada e seguirla, per poi arrivare a disperdersi, diventando un tutt’uno con il paesaggio; riempirsi di nuovo coraggio per potersi finalmente lasciare andare al e nel vuoto: “È un salto ed insieme sono sospesi nel vuoto.”, come recita il testo. 

Per essere in grado di salire sempre più in alto, però, bisogna lasciare indietro le proprie zavorre, come insegnava Seneca al suo amico Lucilio “Onus animi deponendum est” (Seneca, Epistula 28). 

Questo onus che i tipi umani che costellano l’universo di Castrovinci devono deporre è un peso fisi- co, familiare, violento, è l’incarnazione di un amore non corrisposto, è frustrazione e castrazione.

Con tinte a tratti di realismo verghiano nelle descrizioni dei profili umani, l’autore adotta però uno stile di scrittura molto personale, dove la dimensione della tangibilità e quella della metafisica si confondono, poiché si compenetrano. Le scelte lessicali regalano continui parallelismi tra i vari piani in cui i personaggi, come personaggi sveviani, lottano per la propria ascesa: la sessualità e il cibo, la sazietà a l’ingordigia, la violenza e la sicurezza coniugale, e così via. E di queste dimensioni, lo stile coglie la complessità della loro materialità, ma anche di ciò che rappresentano per i personaggi, il loro costituirsi in un universo di richiami simbolici.

Un esempio di questa scrittura al tempo stesso capace di evocare tangibilità e metafora è il modo in cui l’autore descrive il rapporto di Angelo con il suo peso. Se da un lato viene subito in mente il “noi siamo ciò che mangiamo” di Feuerbache, dall’altro viene da pensare che non sono le scelte alimentari che facciamo a definirci, ma anche il modo in cui le facciamo, la mancanza di controllo, l’edonismo, la golosità che nel cibo ha solo un epifenomeno, ma va molto più a fondo, rendendo l’uomo un “cannibale di emozioni”. La scrittura di Castrovinci è al tempo stesso capace di descrivere realisticamente il rapporto del personaggio con un elemento problematico della sua vita quotidiana, e al tempo stesso penetrare nella psiche del personaggio, restituendo al lettore tutta la complessità che anche un problema piccolo, parvus, può nascondere.

E ancora, un altro tema che tesse insieme come un fil rouge le trame dei personaggi, l’amore, non è rappresentato in modo semplice e banale. “L’amore che quando meno te lo aspetti ti cambia la vita”, è un amore dai vari volti e dalle varie sfaccettature: si propaga all’esterno e coinvolge altri corpi e altre menti; ma è anche un amore che deve prima, con difficoltà, farsi spazio all’interno; è un amore carnale, fatto di sensualità e scoperta, ma è anche una spinta spirituale che trova la sua apoteosi nel ricongiungimento dei personaggi con la loro dimensione più intima.

Questa faticosa ascesa sempre più in alto, che Castrovinci ci presenta, è un viaggio tutto umano, in cui a (dis) perdersi per poi ritrovarsi non sono solo i protagonisti della storia, ma in ultima istanza, anche il lettore, che invitato a sentire insieme ad Angelo, Chiara, Luca, Anna, Flora e Luigi, può avere la sua propria risoluzione, la sua propria catarsi.

Antonella Molica Franco (Docente di Lettere Liceo Vittorio Emanuele di Patti)

Recensione di Franca Maria Genovese sulla raccolta di poesie “Un piccolo scrigno mi parla di te”

In un tempo in cui la poesia sembra aver imboccato la strada dell’oblio, di una inevitabile lontananza dal grande pubblico, la raccolta di prose e poesie d’amore “Un piccolo scrigno mi parla di te” di Bruno Lorenzo Castrovinci, mira dritto al cuore dei lettori per un viaggio esperenziale nel tempo e nell’anima.

L’autore, alla sua prima raccolta di versi, dopo la pubblicazione di due romanzi, “Il treno della Scienza, un viaggio senza fine” e “Salire sempre più in alto, fino a toccare il cielo”, già dal titolo, “Un piccolo scrigno mi parla di te”, annuncia la sua originalità e, spingendosi al di là della tradizionale raccolta di versi, affida le proprie emozioni al genere letterario del prosimetro.

I versi, alternati con sapiente maestria alle pagine in prosa e intercalati da evocative illustrazioni, affrontano in modo esclusivo e totalizzante uno dei bisogni umani più “vitali” e imprescindibili, la tesaurizzazione dell’amore.

Come ricordi di un tempo che non tornerà più” è il verso che meglio interpreta la metafora dello scrigno e, se la volontà di eternare l’amore rappresenta l’entità della raccolta, l’intera silloge costruisce ed evoca emozioni e sentimenti, inducendo alla riflessione e a una profonda esperienza emotiva.

L’amore, la nostalgia, lo scorrere del tempo e l’intenso bisogno di tenere i ricordi a sè accomunano i componimenti de Un piccolo scrigno mi parla di te, in cui, l’autore, vero e proprio poeta dell’anima, descrive le più varie sfumature evocate dal sentimento amoroso attraverso il divenire del tempo. L’introspezione personale, materializzatasi in immagini icastiche, diventa viatico per un viaggio lieve in cui il lettore viene accompagnato all’interno del mondo dei sentimenti. Salite e discese, emozioni e sentimenti, felicità e nostalgia, tristezza e malinconia le vibrazioni che percorrono tutte le pagine e che avviluppano l’anima in una costante e soave armonia che ha il sapore, al contempo, di una piacevole e struggente malinconia. L’intensità e la dolcezza dei ricordi non sono mai disgiunte dal tormento dell’allontanamento né dal tenue e mai sopito desiderio di “un nuovo tempo”….

E proprio questa capacità di solleticare il cuore, di far evolvere ogni parola in tensione emotiva e potente suggestione esplica perfettamente il valore universale della poesia: ritmo, messaggio emozionale e incanto.  La chiarezza e l’efficacia espositive, tratti distintivi dell’autore, frutto di un virtuoso e meticoloso lavoro di ricerca, sublimano la “creazione poetica” che diventa, pertanto, essenzialità della parola e cantico emotivo, illuminazione e salvezza dell’anima.

Parlando all’interlocutore, il canzoniere di Castrovinci diviene quindi luogo della memoria e catarsi liberatoria, accordando alle anime sensibili di ritrovarsi e, universalmente, di vivere i moti del cuore ritrovandosi…”in questo bellissimo mistero che è la vita”.  

Franca Maria Genovese (Docente di Lettere ITT E. Majorana di Milazzo)

Recensione di Maria Lizzio su “Salire sempre più in alto fino a toccare il cielo”

“Salire sempre più in alto fino a toccare il cielo” è un romanzo ricchissimo, quasi affollato di personaggi, che s’incontrano, si scontrano, si perdono e si rincontrano, ricamando storie fitte di intrecci e dense di umanità. Impossibile, dunque, soffermarsi su ciascun personaggio e le sue vicende, mentre può essere utile ricostruire l’atmosfera del libro e metterne in rilievo le tematiche fondamentali.

Il titolo, in un certo senso, può trarre in inganno: al salire, naturalmente, si attribuisce un significato positivo, ancor più se si tocca il cielo, ma la lettura del romanzo costringe a ricordare, fin dalle prime pagine, che la salita è tanto faticosa, che sotto i piedi c’è l’abisso, che si può cadere e ci si può fare molto male; anzi, la stessa dedica mette in guardia da ogni facile ottimismo: “A tutte le anime che soffrono in questo lungo viaggio che è la vita”, cui fa eco la prima frase del libro, che è una domanda angosciata: “Cos’è il dolore?”. 

Dunque, c’è sempre un personaggio che ha posto in alto la sua meta, con i rischi di cui si diceva, ma la montagna più faticosa è quella della virtù. Infatti, nel romanzo di Castrovinci, appare subito chiara la tensione morale, il desiderio del bene, oltre che del bello, il tentativo di far coincidere i due aspetti in una rassicurante armonia, il bisogno di rinnovarsi, di purificarsi da quelle tentazioni che, durante il corso della vita, possono inquinare la purezza dell’anima e procurare sofferenza a sé e agli altri.

Il cielo da toccare sta molto in alto, ma, poiché la causa del male è dentro di noi, i protagonisti, per accedervi, devono partire da se stessi, scendere nel sottosuolo della loro interiorità, così che alcuni di loro passeranno anche dallo studio di una psicoterapeuta, posto anch’esso in alto, in cima ad un edificio, il palazzo dei sogni, attraverso un ascensore angusto, che ai lettori dei testi sacri richiama la via stretta che porta al bene. Tutto ciò, in ogni caso, sottolinea quanto sia complesso il percorso che conduce a un equilibrio interiore, se mai lo si raggiunga.

Sì, perché questo romanzo non è esattamente a lieto fine: tanti personaggi, è vero, risolvono i loro problemi, ma nel libro serpeggia il dolore e l’insoddisfazione, l’attrazione del vietato, il tormento e la lotta per restare fedeli ai propri principi; talvolta, s’incontra anche le morte.

A questi uomini e a queste donne fa male l’anima.

In loro è costante il vagheggiamento della bellezza, strettamente legata all’eros, una bellezza che spesso turba, anziché rasserenare, e mantiene vivo un conflitto che, con termini antichi, chiameremmo fra “amor sacro” e “amor profano”. Forse, come dice Massimo Recalcati, c’è qualcosa di malato nel modo umano di amare o, forse, come scriveva già Omero, Eros non è affatto un bellissimo dio, ma è il desiderio fisico, insaziabile e crudele, tormentoso e ingestibile. Al grande aedo avrebbe fatto eco, qualche secolo dopo, Saffo, che definì Eros λυσιμελής (che scioglie le membra), belva γλυκύπικρον (dolceamara) e ἀμάχανον (invincibile), mentre Platone, nel suo “Simposio”, fa raccontare a Socrate la nascita di Eros da Poro (la via, ma anche la via d’uscita, l’espediente ingegnoso) e da Penìa (la mancanza, il bisogno). L’amore, dunque, lungi dall’essere possesso, è desiderio di ciò che non si possiede, per cui l’insoddisfazione è intrinseca alla sua stessa natura.

 Ma le cose si complicano ulteriormente quando il desiderio erotico è vissuto come “peccato” contro la morale cristiana, innesto nuovo sull’antica civiltà greco-latina. La letteratura italiana, fin dalle origini, registra questo conflitto,  più o meno profondo, a seconda dell’epoca e della sensibilità dei singoli autori: ad esempio, Jacopo da Lentini, poeta alla corte di Federico II di Svevia, afferma, in un sonetto, di voler servire Dio per andare in paradiso, ma di non volerci andare senza la sua donna, mentre Guido Guinizzelli, padre dello Stilnovismo, immagina che la sua anima, arrivata in paradiso, venga rimproverata da Dio, perché si è abbandonata a un amore “vano”. Vano e peccaminoso sembra anche al Petrarca il suo amore per Laura, di cui dice di pentirsi e chiede perdono a Dio, ma a cui ritorna sempre, nonostante i buoni propositi.

La bellezza, dunque, compagna dell’amore, impregna di sé molte pagine del romanzo: corpi statuari, sia maschili sia femminili, occhi grandi, in cui si rischia di naufragare, inseguimenti e fughe, anche fatali. Persino la bellezza della natura è ambivalente, complice sia della serenità sia della seduzione.

Ma non c’è quasi mai un sereno appagamento: la sensualità che avvolge molti personaggi porta con sé angoscia e presagio di morte, con la quale sembra misteriosamente apparentata in un legame tossico, quasi per un eccesso di vitalità che sfocia nel suo contrario (un magnifico esempio letterario di questa ambiguità si trova nella figura del principe di Salina, indimenticabile protagonista del “Gattopardo”, di Tomasi di Lampedusa, un siciliano di affascinante vitalità, ma che “corteggia” la morte).

Nel romanzo di Castrovinci, tutte queste contraddizioni esplodono nel protagonista, Angelo, privo di certezze e perennemente disponibile all’avventura erotica e sentimentale: s’innamora di tutte, ma è il più triste e tormentato, anche perché ha una moglie, di cui dice di essere innamorato, ma la cui voce, significativamente, non affiora nella narrazione e lei vive solo nei sensi di colpa del marito, rappresentando le vulnerabili, traballanti colonne d’Ercole della sua coscienza. 

Angelo ha un amore sfrenato per la vita: s’inebria delle calde estati siciliane, di odori e colori, di vino e di pane caldo, ma il suo cuore, mai al sicuro, aspira alla redenzione ed esamina con tormento la propria condizione spirituale. Così, in una notte insonne di primavera, passando in rassegna i peccati capitali, scopre di averli commessi tutti, tranne furto ed omicidio, ma gli manca la forza della rinascita, nonostante la buona volontà, che lo spinge a notevoli sacrifici. Angelo è portatore di una virtù triste: si può astenere, talvolta, dall’amare una donna con il corpo, ma la sua anima è divorata dalla passione, per cui si trova nell’infelice condizione di non possedere realmente né la virtù né la donna desiderata; egli, nonostante gli sforzi, non diventa mai un uomo nuovo, capace di frutti nuovi, che ne attestino il cambiamento radicale.

Di qui l’elogio della morte, che libera per sempre, sotto il cui sguardo egli intravede l’unica possibilità di redenzione: “Dopo una vita vissuta nel tormento, con brevi momenti di felicità, il suo dolore ora cessava e lui si sentiva veramente felice” (pag. 221).

Dunque, ricerca del bene e perdizione, instabilità di sentimenti e bisogno di punti fermi, amore e morte sono le antinomie di un’umanità viva e dolente, in un romanzo in cui, comunque, non viene mai meno la tensione verso l’alto: forse, anche la morte, infine, non è che un volo, che porta molto lontano, felicemente lontano.  

Maria Lizzio  (docente di lettere e autrice di opere letterarie)  

Recensione di Tindaro Vittorio Federico su “Salire sempre più in alto fino a toccare il cielo”

“Salire sempre più in alto fino a toccare il cielo” di Bruno Lorenzo Castrovinci è un inno all’amore, cantato in tutte le sue sfumature, anche quelle più intime e nascoste, ed espresso con un linguaggio ora morbido e voluttuoso, ora realistico e corposo, che riveste le pagine di una patina a tratti delicata, a tratti densa e consistente.

L’eros si configura come un sentimento dolceamaro, che squassa l’anima fino nelle sue viscere e riempie l’esistenza dei personaggi, che, durante il loro viaggio, sperimentano sensazioni forti e contrastanti, che alla fine si ricompongono, dando vita ad un nuovo equilibrio, che fa assumere al protagonista di turno una nuova identità, più matura, consapevole e sicura di sé.

Nella descrizione del sentimento amoroso prevale l’elemento visivo, gli occhi, infatti, secondo un topos ben radicato nella tradizione letteraria, sono il senso da cui scaturisce la passione amorosa, che poi trova la sua sorgente vitale nel cuore, che, alimentato dalle immagini, vive esperienze, sensazioni ed emozioni esaltanti, che, facendosi spazio, lo plasmano, fino a fargli assumere una veste nuova.

Il dolore, l’angoscia, la sofferenza si abbattono con violenza sui protagonisti, ma proprio l’impeto di quest’urto fa riaffiorare in superficie la forza dei singoli personaggi, che, travolti, ma mai del tutto soggiogati, riemergono alla luce e trovano alla fine la strada della felicità. Perfino Angelo, il protagonista indiscusso del libro, nonostante il tragico epilogo, nel momento della sua fine, acquista una consapevolezza nuova, comprende il vero significato della sua esistenza, si rende conto di “avere vissuto un grande amore” e, mentre precipita nel vuoto, “si perde nel ricordo degli occhi della moglie con il cuore in pace”.

La stessa morte, con cui egli intesse un breve colloquio, che rappresenta una piccola gemma all’interno del romanzo, lo apostrofa come un uomo “fortunato”, in quanto ha vissuto molte esperienze, ha conosciuto l’amore, ha viaggiato e si è realizzato professionalmente, a differenza di molti, che vivono esistenze oscure, prive del “calore che solo la vita e l’amore possono dare”.

Le vicende dei personaggi sono incastonate in un paesaggio ben delineato e concreto, che vede alternarsi le stagioni in un piccolo paese della Sicilia, che si anima freneticamente durante l’estate e riposa in un dolce letargo nel periodo invernale.

La natura, assolata e dipinta con colori vivi, fa da sfondo alla vita del piccolo borgo, ritratta con le sue tradizioni, i suoi sapori, profumi e riti, che scandiscono le esistenze degli abitanti e quelle dei turisti, che, nel periodo estivo, si immergono nelle strade e si riversano sulle spiagge, godendo della bellezza del cielo terso, del mare cristallino, delle notti stellate e del sole caldo. In questa magica atmosfera i corpi si muovono vorticosamente e si fondono, in una sorta di metamorfosi panica, con il paesaggio, da cui traggono nuova linfa per assaporare emozioni intense e piaceri inebrianti.

Le storie narrate seguono delle traiettorie ascendenti, degli itinerari che dal disordine conducono all’ordine, dal caos all’armonia, dal dolore alla felicità.

Proprio la metafora dell’ascesa scandisce il percorso di tutti i personaggi, che, attraverso un iter tortuoso, viaggiano dal buio alla luce, si liberano delle loro contraddizioni e varcano la porta del paradiso, dove ad attenderli c’è una “meta nuova ed inaspettata”.

E’ un percorso obbligato, perché, come recita Karen Armstrong, “non vi è ascesa alle altezze senza una precedente discesa nelle tenebre, nessuna nuova vita senza qualche forma di morte”.

E’ il mistero della vita stessa, che Castrovinci descrive e ritrae con immagini di particolare efficacia e vivacità, esplora e scandaglia in profondità, attraverso un lessico in cui la dimensione realistica si alterna a quella simbolica, creando un impasto efficace, che incanta il lettore e lo conduce all’esplorazione dei meandri dell’animo umano.

Tindaro Vittorio Federico (Docente di lettere e filosofia Liceo Vittorio Emanuele III di Patti)

Recensione di Salvatore Crisafulli su “Il treno della scienza, un viaggio senza fine”

Raccontare le vite degli altri è un’opera d’arte e anche una terapia. Ogni storia personale merita un romanzo, si potrebbe dire, parafrasando lo psicologo Erving Polster. Lo scrittore Bruno Lorenzo Castrovinci, al suo esordio letterario, con stile creativo ci fa viaggiare nei labirinti dell’anima.

Racconta l’universo interiore che ci portiamo dentro stracolmo di desideri, di ombre, di bellezza e di dolore. La trama del romanzo trae ispirazione dalla luminosa metafora del viaggio in treno come luogo di traiettorie esistenziali non sempre prevedibili. Su di esso si intersecano relazioni imperscrutabili, onde lunghe delle maree dei rapporti umani.

L’escursione nel mondo intimo di alcune persone fa affiorare pensieri fuggenti inspiegabili e sensazioni assillanti. E’ il male oscuro, alimentato dal nostro inconscio che tormenta l’anima, la fa ammutolire disorientandola, facendola convivere con emozioni incomprensibili e laceranti. L’individuo diventa una galassia di corpo, mente, anima e coscienza che si dipana tra sonno, veglia, trance ed estasi.  

La storia illumina il mondo della scuola, spesso bistrattato e vilipeso da giornalisti ed esperti ignoranti, mettendo in evidenza i tanti sacrifici degli insegnanti costretti a subire anche logoranti norme burocratiche.

La vita quotidiana dei docenti, nell’arco di un anno scolastico, fa risaltare interazioni feconde, collaborazioni, condivisioni felici, deserti relazionali, le avventure dell’immaginazione, orizzonti di amore per gli alunni. La galleria dei personaggi è ricca: uomini e donne immersi in un agire tormentato e travolti dall’impotenza di non poter controllare se stessi. Il loro vissuto emotivo è sottoposto agli strappi lancinanti e alle burrasche degli incontri. Nei vicoli della memoria non si può essere sempre svegli, si attraversano i sentieri del freddo, del piacere, della felicità effimera, delle oscillazioni cicliche degli istanti. Spesso il desiderio può abbracciare la nostra vulnerabilità, può avvelenare la mente o liberarla.

I protagonisti vivono tormenti nella coscienza, senso di inadeguatezza e non arrivano momenti di chiarezza limpidi. Diversi hanno difficoltà a capirsi, sono sommersi da sensi di colpa, si autoassolvono con indulgenza e inseguono l’insondabile bisogno di dare senso alle esperienze. E’ come se nella loro mente convivessero forzatamente diverse personalità. A volte arrivano sull’orlo dell’abisso o sono attratti da un buco nero che risucchia emozioni inconfessabili.

La scuola con i suoi ritmi cannibalizza la vita- sostiene l’autore- con grande intensità. L’accento è posto sulle fatiche giornaliere dei docenti nel prepararsi ad affrontare le lezioni, nel relazionarsi con i mondi degli adolescenti, stracolmi d’ansia e di uragani emozionali, con mille adempimenti, iniziative e genitori alle prese con problemi drammatici e difficoltà nel ruolo educativo.

La fine dell’anno scolastico è velata da tanta tristezza. I momenti vissuti con i ragazzi e i colleghi non torneranno. Gioia, amarezza, felicità, dolore sono nel cuore di tutti riboccante di nostalgia che toglie il respiro.

L’itinerario continua e inizia un nuovo anno nella scuola con le ritualità di sempre.Gli eventi narrati presentano anche la morte di uno chef straordinario conosciuto da un personaggio durante una notte in un ospedale. L’oscenità del tragico e il desiderio di immortalità si scontrano con la fine dell’esistenza che può arrivare in qualsiasi momento. L’animo umano non si rassegna al mistero della vita.

Lo scrittore fa interrogare alcuni individui. Le riflessioni si mescolano a percorsi esistenziali controversi, impenetrabili descritti con effetto psicologico. In diversi casi una catarsi ravviva la voglia di vivere intensamente.

Intanto il treno corre e accoglie tutte le storie senza lasciare niente nell’oblio. I paesaggi invernali e primaverili sono descritti con pennellate di colori che creano groviglio di tonalità e di sfaccettature sfuggenti. La stagione estiva è alle porte. Il viaggio sul treno della scienza sembra lanciato verso il futuro, ma improvvisamente il tempo si ferma per lasciare spazio alla sciagura. La trasgressione fa scaturire un evento luttuoso. Il lettore è coinvolto nel dramma.

La fine del romanzo ci invita a scavare profondamente nella nostra natura umana per non vivere nel caos interiore prigionieri delle tossine mentali del desiderio.

Il libro ci guida verso la necessità di affrontare le emozioni, di respirare, ad essere presenti, ad alimentare la gioia di vivere per non restare reclusi in sogni oscuri. Occorre accettarsi senza pensare di essere onnipotenti, nutrendosi di umiltà, di autostima, di capacità di amare, di perdonare per elevare l’anima ed esprimere gratitudine agli altri. Il potere della generosità può cambiare noi stessi e il mondo. La flessibilità della mente porta a un profondo senso di pacificazione se attingiamo alle risorse infinite che abbiamo dentro di noi. Il dialogo interiore e con gli altri all’insegna della chiarezza e dell’empatia può far nascere una società migliore evitando l’eccesso di censure, di giudizi, l’individualismo e la frammentazione delle personalità che distruggono il senso e la sacralità dell’esistenza.

Salvatore Crisafulli  (Docente di Lettere, IC Brolo) 

Recensione di Pina Germanò su “Il treno della scienza, un viaggio senza fine”

Questa sera ho il piacere di discutere di un libro che mi ha incuriosita già dal titolo e poi affascinata sin dalle prime pagine e, mentre leggevo l’incipit del secondo capitolo, mi sono sentita trasportare in un tempo passato ed ho rivissuto una dimensione umana e psicologica che conoscevo bene ma che forse non avevo mai esplorato fino in fondo.

Il treno della scienza, viaggio senza fine, trae ispirazione dall’esperienza del viaggio, descritta come momento di vita di chi ha lavorato nella scuola, ma che appartiene sicuramente a quanti  per lavoro sono  costretti a fare i pendolari.

Il treno, ancora oggi, anche se diverso da quello di un secolo fa, affascina ed emoziona “corre e sa, ascolta in silenzio, sente le parole ed i pensieri, custodisce i desideri ed i segreti”- afferma l’autore- e viene descritto come un immenso contenitore, dove ciascuna persona diviene protagonista di un “νόστος”, quel viaggio interiore che i greci intendevano come il viaggio dell’anima e della mente.

 E’ quell’anima viaggiante dalle molteplici sfaccettature che assorbe e, nella sua poliedricità, elabora percorsi di vita intensi, i quali, per la fluidità che li contraddistingue, veicolano da un personaggio all’altro  e diventano poi patrimonio comune.

 “Sarà perché i binari sembrano non finire mai” dice l’autore, che lasciano spazio ad infinite immaginazioni e possono esplicitarsi sia con i voli pindarici e patologici di Belluca de “Il treno ha fischiato” che con sentimenti introspettivi e con escursioni nel mondo  interiore, viaggiando nei labirinti dell’anima.

Il treno della scienza, al di là dello specifico significato del titolo, ha un profondo valore psicologico nelle diverse rappresentazioni dei personaggi che interagiscono e si alternano all’interno dei vagoni, in tempi chiaramente diversificati. Molti di essi sono presentati con abilità descrittiva, con dovizia di particolari nelle loro fattezze fisiche che, a volte, sono espressioni dell’animo.

All’interno delle carrozze i personaggi esprimono i loro pensieri, i desideri, le sensazioni e non sono espressione dei pupari siciliani ma sono autentici  ψυχή, il loro animo a volte si mette a nudo ed essi si sentono liberi di raccontarsi e di mostrare le proprie fragilità e i propri vuoti esistenziali e di aprirsi a nuove relazioni che, almeno al momento, sembra possano colmare mancanze intime e crepe che, nelle difficoltà accentuate dalle distanze quotidiane, diventano profonde spaccature.

Nel romanzo, tra le righe, si propone l’amore nella varietà delle forme quasi come protagonista assoluto, in fondo è l’amore il vero motore del mondo e, principalmente, della psiche di ciascun individuo, mentre il dialogo che scaturisce da una semplice espressione del viso, si articola in maniera semplice e complessa allo stesso tempo ed evidenzia l’agitarsi delle emozioni, l’universo interiore che ci portiamo dentro pieno di speranze, ansie, ombre, delusioni e bellezza.  .

Le anime si incontrano e si scontrano, si innamorano e vivono intense sensazioni che a tratti alleviano sofferenze o fanno emergere quelle ancestrali contraddizioni che hanno sempre tormentato l’animo umano.

Tanti e diversificati sono i personaggi che popolano il treno della scienza ma quattro sono i protagonisti: Marco, Ester, Laura ed Alberto proposti con una specifica identità, peraltro, attorno e dentro di loro, sono variegate le personalità che fanno capolino; sono spesso sommersi da sensi di colpa  ma al contempo si autoassolvono nel convincimento del bisogno di una felicità pur se effimera e momentanea.

A questo complesso mondo interiore fanno da cornice la Sicilia  e la sicilianità e da sfondo il complesso mondo della scuola.

Il paesaggio siciliano, isola solare e assolata, è descritto nella varietà dei colori che lo rendono unico ed estremamente bello  e il libro lo propone come contesto vivo e interattivo, inducendo il lettore a scoprirlo e ad assaporarlo lentamente nei suoi mille volti, ma – soprattutto – invita a viverlo suggestionando con le parole la mente di chi legge, al punto tale che quasi si percepiscono attraverso i sensi anche gli odori e i sapori.

E’ – dunque- la figurazione melodiosa e lacerata della Sicilia e racconta con grande perizia le contraddizioni insite di questa terra bellissima, con paesaggi mozzafiato ma anche con anfratti che incutono paura, coste su cui transitano i treni carichi di emozioni ma dalle strutture obsolete e talora drammaticamente dissestati, evidentemente in contrasto con lo scorrere del tempo per la loro esagerata lentezza, che però consente di osservare bene il  territorio a volte in stato di abbandono per l’incuria o la povertà degli interventi di tutela o di restauro.

 E poi la scuola che spesso manca dell’indispensabile per una accoglienza ideale degli studenti che, certe volte devono affrontare tanti sacrifici per poter completare il proprio percorso di crescita umana e culturale.

“La scuola con i suoi ritmi cannibalizza la vita” – sostiene l’autore – con grande forza, ma al contempo ha un effetto catartico perché purifica l’animo facendolo immergere negli effluvi limpidi e sereni della poesia o nella fredda razionalità delle formule chimiche o matematiche.

L’attenzione dell’autore, comunque, è rivolta alle fatiche giornaliere dei docenti, dentro e fuori dal treno, alla preparazione delle lezioni e al confronto più o meno sereno con i colleghi, alle complicate  relazioni con il mondo in continuo divenire degli adolescenti, un mondo ansioso e frastornato da uragani emozionali e, non ultimi, i mille adempimenti, le iniziative e i complessi rapporti con le famiglie, genitori alle prese con una ingente pluralità di problemi e con le strutturali difficoltà del proprio ruolo educativo.

È così che il tempo trascorre e il “carpe diem” di Orazio in alcuni attimi sembra perdere il suo significato, perché le stagioni si susseguono e si inseguono, le tiepidi primavere divengono tristi e freddi inverni, sempre comunque mitigati dal tepore del sole siciliano, αδράξει την ημέρα Carpe diem quam minimum credula postero” (” cogli l’attimo confidando il meno possibile nel domani” assume il significato della ricerca del καϊροσ, momento perfetto che non esiste e si chiude l’anno e la vita su quel treno si ferma bruscamente e con l’arrivo dell’estate  si chiude un percorso iniziato e mai concluso, perché il treno della vita ha molte fermate, con salite e discese di personaggi, ma dalla stazione del terminale non si torna indietro.

Il treno della scienza ricomincia nel nuovo anno scolastico con vecchi e nuovi personaggi, con vecchie e nuove storie, con sempre mutevoli emozioni, con insolite conoscenze e intensi confronti, è diverso e uguale al treno della vita, perché raccoglie tante storie e le conserva, solo i personaggi possono tramutarli in valori e tramandarli come insegnamenti di vita e non solo di scuola.

Questo è il messaggio fondamentale del testo, per cui la drammaticità della conclusione del libro, che potrebbe sembrare preludio di una fine, in effetti non è altro che un invito ad una continua analisi interiore per procedere con entusiasmo e vigore verso nuove e sempre più proficue mete che la vita, come il treno, ci apparecchia.

Giuseppina Germanò (Dirigente Scolastico in quiescienza)

Recensione di Rossella Scaffidi su “Un piccolo scrigno mi parla ancora di te”

Il viaggio poetico all’interno della raccolta “Un piccolo scrigno mi parla di te” di Bruno Lorenzo Castrovinci suggerisce in me l’idea di un percorso che, partendo dal tema della memoria, possa legare alcuni testi poetici tra loro affini per tematiche . La lettura di alcune poesie, precedute da riflessioni avrà, dunque, lo scopo di scoprire i segreti contenuti dentro lo scrigno di cui recita il titolo.

Lo scrigno è, infatti, il luogo della memoria: da luogo fisico esso diviene luogo metaforico.

La memoria, poi, è il bagaglio di ognuno di noi, fatto di esperienze, attimi, momenti che cresce col tempo e che il tempo può distruggere.

Ed è proprio la paura di perdere i ricordi che, mi sembra, possa essere un’interessante chiave di lettura del libro.

E da qui partirei

Lo scorrere del tempo, gli attimi, gli istanti della vita sono raccontati dall’autore attraverso un sottile e delicato filo che è il sentimento d’amore.

Con grande sensibilità il poeta ne descrive le sfumature più segrete mettendo a nudo la propria anima.

Parole chiave ricorrenti sono quelle relative al campo semantico del tempo, del suo scorrere inesorabile: il tempo che si fissa in attimi resi ancora più intensi perché notturni e crepuscolari.

La distanza, poi, che divide gli amanti, si riempie del ricordo di lei.

Comincerei dalla poesia Amarsi (pag.19)

Desiderio, di cui parla il poeta, che si traduce in emozioni che fermano il tempo unendo le anime ed i corpi in una sinfonia che segna i confini del sé.

Attimi (pag.133)

Attimi in cui il silenzio ha preso il posto delle parole, dice il poeta.

Istanti (pag.17)

Istanti in cui il tempo si ferma ed è come sentire il soffio dell’universo

Briciole di tempo (pag.79)

Quegli istanti così belli che nel tempo svaniranno nell’oblio, afferma il poeta

C’è nel libro un’attesa, una speranza ma anche una paura, quella che è dentro ognuno di noi e ci rende fragili di fronte al tempo che scorre.

Ma la notte rinforza le speranze dell’amante

Notti (pag.37)

Crepuscolo (pag.97)

Pensarti (pag.117)

L’amore si nutre di incontri fugaci e la distanza raggela il cuore.

Con grande delicatezza il poeta affronta, poi, il tema del ricordo

Ricordi (pag.83)

E poi il vuoto (pag.137)

E’ un libro, questo, di gioia e dolore, è un diario di vita, di una umanità che non ha paura di mettere a nudo le proprie debolezze parlando dell’amore che rende, al tempo stesso, forti e deboli, ma che nutre l’esistenza.

E poi c’è l’amore filiale

Tuo figlio (pag. 45)

Era tuo padre (pag.99)

Questo libro di poesia mi fa venire in mente la grande tradizione poetica italiana stilnovistica, penso alla raffinatezza con cui l’autore descrive gli occhi della donna

Ricordo i tuoi bellissimi occhi (pag.25)

C’è, dunque, amore e pudore, sentimenti che si rincorrono e si cercano in tutto il corso delle poesie. Un viaggio nell’anima che, certamente ci renderà più forti perché più consapevoli delle nostre fragilità.

Rossella Scaffidi (docente di lettere ITT E. Majorana di Milazzo)

Recensione di Rossella Scaffidi su “Salire sempre più in alto fino a toccare il cielo”

Le pulsioni dell’esistenza, il mistero della vita, la forza dell’amore e della passione, il gioco delle parti, le alterne vicende umane, le cadute, le risalite, i dubbi, la continua ed infinita ricerca della felicità: questi i topoi cari alla letteratura di tutti i tempi.

Tutti questi temi affiorano alla mente leggendo il libro “Salire sempre più in alto fino a toccare il cielo”, romanzo di Bruno Lorenzo Castrovinci nel quale l’autore, attraverso il racconto di storie di donne e uomini, le cui vite si intrecciano, descrive la parabola dell’esistenza umana.

L’amore ed il desiderio di appagamento, che animano le loro vite, vengono rappresentati in tutte le loro sfumature: amore filiale, amore sacro, amore profano, sfaccettature che, però, ne celebrano la maestosità del sentimento, capace di ricucire gli strappi e salvare coloro che in esso pongono speranza.

Un inno all’amore, dunque, che è anche un inno alla vita in cui dominano Eros e Thanatos, forze titaniche che lottano tra di loro e segnano l’esistenza dei protagonisti: talvolta vince l’Eros ma Thanatos è la chiusura del cerchio. 

La morte, fine della vita, diventa, talvolta, il fine di un’esistenza divenuta insopportabile. Lo spazio per la fede può aprire un varco ma il mistero e la complessità del vivere rendono tutte le scorciatoie possibili spesso inadeguate.

Nel corso della narrazione si snodano, dunque, le vicende dei personaggi, diversi tra loro, ma accomunati da una grande tensione emotiva.

Donne e uomini, protagonisti del romanzo, si raccontano, svelano le loro paure, i loro drammi dando spazio a quadri narrativi in cui grandi temi vengono affrontati: violenza coniugale, violenza sessuale, matrimoni riparatori, amore platonico. Ogni personaggio vive un’esistenza complessa che non sempre riesce a rivelare agli altri e alcuni di essi soccombono.

Il marito di Anna, violento ed esasperato, segna con la sua morte un momento di rinascita per la moglie la quale, finalmente libera, anche se combattuta da sensi di colpa, riacquisisce la propria fisicità tanto degradata da un matrimonio che era diventato per lei una prigione. Angelo, personaggio a cui l’autore affida la funzione di protagonista, con il quale si apre e chiude il romanzo, muore dopo aver vissuto un’esistenza alla ricerca dell’amore, un amore che aveva, quello della moglie, ma di cui acquisisce consapevolezza nel momento del trapasso, quando la morte stessa lo induce alla riflessione.

La conversazione con la morte diventa una pagina di grande tensione emotiva che colpisce il lettore: “una lacrima rigava il suo volto nel ricordo di chi aveva lasciato e non sapeva se l’avrebbe rincontrato un giorno, di nuovo”.

Con queste parole, poi, l’autore descrive il distacco dalla vita: “un bacio, dolce amore mio, ti lascio alla vita, mentre io non ci sarò più per abbracciarti e stringerti nei tuoi momenti più bui”, parole che Angelo rivolge alla moglie ma che la moglie non saprà mai che lui ha pronunciato, essendo egli fuggito da lei su un’auto, stregato da un amore che pensava fosse quello vero, un amore provato per un’altra donna, ma mai espresso, e che gli aveva tolto la pace e lo aveva condotto alla morte.

Dalla morte alla vita: gli altri protagonisti trovano una chiave di volta nelle loro esistenze, faranno i conti con i loro drammi e troveranno una nuova dimensione dell’esistere, condividendo le proprie debolezze con chi la vita ha posto lungo il loro cammino.

Tutte queste storie vengono incorniciate in un paesaggio mitico e magico che è quello di un piccolo paese della Sicilia in cui lo scandire del tempo viene segnato dalle stagioni che passano e regalano profumi, sensazioni, emozioni.

Nel romanzo c’è la Sicilia, c’è la lotta per la vita espressa attraverso la metafora che dà il titolo al romanzo “Salire sempre più in alto fino a toccare il cielo”, c’è la natura umana svelata nella sua fragilità da una penna che racconta senza mai perdere la misura delle cose.

Un libro i cui piani ora si intrecciano, ora si distendono e in cui le storie dei personaggi procedono in parallelo regalando una continua variazione di quadri narrativi che forniscono al romanzo una struttura dinamica, in un divenire continuo di emozioni.

Recensione di Rossella Scaffidi (Docente di lettere dell’ITT E. Majorana di Milazzo)

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